La guerra dei dazi di Trump non è solo commerciale

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di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Nella sua relazione alle Camere in vista del Consiglio europeo del 20 e 21 marzo a Bruxelles, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a proposito dei dazi già imposti e degli altri annunciati dall’Amministrazione di Donald Trump, ha detto di essere “convinta che si debba continuare a lavorare con concretezza e con pragmatismo per trovare un possibile terreno d’intesa e scongiurare una guerra commerciale che non avvantaggerebbe nessuno, né gli Stati Uniti né l’Europa” e di non ritenere saggio “cadere nella tentazione delle rappresaglie, che diventano un circolo vizioso nel quale tutti perdono”.

La sua affermazione è stata considerata parte di quell’oggettivo capovolgimento dell’ordine delle responsabilità per la rottura totale tra gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente euro-atlantico (Ue, Canada, Regno Unito), che nello stesso intervento, a proposito della guerra in Ucraina, Meloni ha addebitato non a Trump e agli Usa, ma ad altri Paesi e leader politici intenti a “scavare un solco tra le due sponde dell’Atlantico”, che “non fa che indebolire l’intero Occidente a beneficio di ben altri attori”.

Il “pacifismo tariffario” dell’Italia appare più un pendant politico del pacifismo strategico pro-Usa, a cui il Governo sembra intenzionato a votarsi, che la riaffermazione di una posizione economica liberoscambista, che risulta, se non smentita, contraddetta sia dalle riserve espresse dal Governo sull’accordo tra Ue e Mercosur, sia dallo stesso approccio al programma RearmEu, rispetto al quale per Meloni l’obiettivo dell’Italia non è di acquistare armamenti “da Paesi stranieri, quanto semmai di produrli, rafforzando la competitività e sostenendo gli investimenti delle nostre aziende e del nostro tessuto produttivo”.

A consigliare però prudenza sulle ritorsioni commerciali, pure giuridicamente legittime, a differenza dei dazi discriminatori (cioè solo contro alcuni Paesi) imposti da Trump, non sono solo Meloni e gli esponenti del suo Governo, ma anche studiosi e osservatori molto lontani dalle posizioni politiche o dagli interessi dell’Esecutivo italiano. Tommaso Monacelli, ad esempio, su lavoce.info ha spiegato come in base degli scenari più realistici i dazi unilaterali di Trump produrrebbero presumibilmente meno danni di una guerra commerciale tra Usa e Unione europea, che potrebbe portare a uno “shock stagflazionistico”, cioè a un periodo di stagnazione economica e alta inflazione. Ad analoghe conclusioni è giunto un recente rapporto dell’Ufficio Studi del Parlamento europeo, per cui gli effetti dei dazi statunitensi si potrebbero mitigare con gli aggiustamenti del tasso di cambio e con le politiche della BCE, mentre rischi più elevati conseguirebbero a una interruzione traumatica dell’intero sistema del commercio globale.

Se quindi a consigliare cautela a Meloni è un’analisi economicamente diffusa anche oltre i confini delle forze politiche pro Trump, non è detto che sia così prudente e ragionevole leggere le prospettive dell’isolazionismo politico-economico statunitense secondo il paradigma del “mondo di prima”. La guerra dei dazi di Trump non è un fisiologico surriscaldamento delle relazioni commerciali tra stati alleati, ma è parte di una guerra politica, economica e strategica volta a una radicale riscrittura dell’ordine politico e economico occidentale, considerato oggi dall’amministrazione Usa e dalla maggioranza degli elettori Usa il vero e proprio nemico esistenziale del benessere e della libertà degli Stati Uniti.

Pur ammettendo come possibili o probabili i maggiori costi di una linea dura europea sui dazi statunitensi, che potenzialmente non comporta solo contromisure tariffarie, ma anche interventi fiscali e regolatori, in particolari sui grandi player tecnologici statunitensi, il problema che oggi l’Unione europea si deve realisticamente porre è quello di preservare al proprio interno le regole delle democrazie capitalistiche – cioè i principi dello stato di diritto in ambito economico – che al proprio esterno ormai non sono solo minacciate, ma travolte dal rule of power trumpiano.

Nella guerra dei dazi, oggi il problema dell’Ue non è solo quanti danni questo scontro procura alle economie dei Paesi membri, ma quanti è in grado di ribaltarne sull’economia degli Stati Uniti e quanto questa reazione può allontanare il successo del progetto trumpiano di dominio statunitense di un mondo “deglobalizzato”. Il che non significa, come è ovvio, rispondere con riflessi pavloviani ad ogni provocazione e non fare considerazioni di razionalità economica sulle contromisure tariffarie, ma evitare di illudersi che tutto sommato rimaniamo dentro la routine, leggermente più accidentata e movimentata, del vecchio occidente liberal-capitalistico.

Facciamo un esempio: nessuno avrebbe potuto immaginare, fino a pochi anni fa, che un contratto con una big tech Usa nei settori sensibili per la sicurezza nazionale potesse rappresentare una minaccia. Nessuna persona di buon senso, invece, può ora pensare di affidare con altrettanta fiducia le comunicazioni degli apparati militari e di intelligence italiani a Starlink, che fa un uso arbitrariamente politico del suo monopolio tecnologico e dei suoi impegni contrattuali, solo perché molto più conveniente di qualunque alternativa, al momento peraltro inesistente e tutta da costruire.

La storia recente ha dimostrato quanto idealistica e fallace fosse l’illusione liberale che dove passano le merci non passano gli eserciti e consiglia oggi di non considerare scontato che debbano passare liberamente le merci anche dove rischiano di passare gli eserciti o dove la minaccia militare (che rispetto all’Europa Trump usa in termini omissivi, cioè di disimpegno e abbandono alla mercè di Mosca) è utilizzata per imporre l’accettazione di relazioni commerciali discriminatorie.

È probabile che l’Europa debba stare molto peggio di come sta per conservarsi in prospettiva molto meglio di come Trump la vuole ridurre – e anche meglio di oggi. Ma è su questa prospettiva di lungo periodo che vanno valutate le scelte, economiche e no, che l’Europa dovrà compiere, sempre che le sue élite politiche e la sua opinione pubblica si dimostrino all’altezza di questa sfida. (Public Policy)

@CarmeloPalma

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato

(foto cc Palazzo Chigi – la premier ripresa in aula al Senato durante le comunicazioni sul Consiglio europeo)